mercoledì 1 settembre 2010

Re, Ministri, Generali. Lo Stato in fuga


La Fuga di Pescara (di Silvio Bertoldi - illustrazioni di Rimigliano)
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Vittorio Emanuele III

Maresciallo Badoglio

         Alle cinque della sera dell'8 settembre 1943, Vittorio Emanuele III comincia a prepararsi a lasciare Roma. È un sereno mercoledì che prelude a un dolcissimo autunno, e il re ha 74 anni. Il ministro della Real Casa, Acquarone, ha telefonato che il Quirinale è ritenuto più sicuro di Villa Ada, meglio trasferirvisi. Sarà il primo passo di un itinerario peraltro previsto e destinato, nell’ipotesi, a concludersi in Sardegna, per sfuggire a una eventuale cattura da parte dei tedeschi.

         Si è pensato a tutto nel caso d’un abbandono della capitale: due cacciatorpedinieri (il Vivaldi e il Da Noli) dovranno prendere a bordo i sovrani a Civitavecchia e portarli alla Maddalena, beni e oggetti preziosi sono già in Svizzera, sedici milioni, per affrontare le prime esigenze, diciassette valigie per il viaggio, carte e documenti in una borsa. Alle 18.15 precise la Fiat 2800 dell’autista Baraldi varca il portone della reggia. Vittorio Emanuele ed Elena si ritirano nei loro appartamenti. Il preludio della fuga di Pescara è questo. 
Ministro Acquarone

          Ma gli avvenimenti precipitano. La cronaca segnala l'improvviso ritorno del sovrano a Villa Ada, come per un cessato allarme, e subito dopo l'altrettanto improvviso ritorno al Quirinale per un improvvisatissimo Consiglio della Corona. È ormai certo che Eisenhower annuncerà alla radio in serata la firma dell'armistizio da parte dell'Italia e coglierà di sorpresa governo e militari, impreparati all'evento e chissà perché convinti che l'annuncio sarebbe stato dato il giorno 12. 
Gemerale Renato Sandalli
 Nulla è stato fatto di quanto previsto dagli accordi sottoscritti per fornire i mezzi richiesti dagli Alleati in vista del lancio su Roma di una divisione paracadutisti: e quando, la sera del 7, due ufficiali americani: i colonnelli Maxwell Taylor e Gardiner, si erano presentati segretamente nella capitale per concordare le comuni iniziative, tutti sono caduti dalle nuvole. Il generale Carboni, comandante della difesa di Roma e delegato a riceverli, era a una festa; il capo di stato maggiore generale Ambrosio proprio quel giorno era a Torino per un trasloco; Badoglio era a letto dalle nove, Roatta cenava in famiglia e per quei due ospiti annunciatissimi era a disposizione soltanto un colonnello che non parlava inglese e un principesco banchetto con cui si sperava di addolcire la loro irritazione.

Generale Puntoni
     Alla fine arrivò Carboni, andarono tutti da Badoglio e lo svegliarono. Lui scese in vestaglia supplicando che si rimandasse ogni cosa, in quelle condizioni c'era il rischio d'un fallimento, i due americani spedissero per carità ad Eisenhower un telegramma di proroga, almeno per salvare i loro paracadutisti. Sia pur di malavoglia, il telegramma venne spedito e quella fu la prima delle sciagurate mosse del tragico balletto alla ricerca di una salvezza purchessia.     


Ammiraglio Raffaele De Courten
    Il Consiglio della Corona vede seduti intorno al re il primo ministro Badoglio, i generali Ambrosio (capo di stato maggiore generale) , Carboni (capo del servizio segreto militare), De Stefanis (per il capo di stato maggiore dell'esercito: Roatta) e Puntoni (aiutante di campo del re) , il ministro degli esteri Guariglia, con i tre ministri militari, De Courten della Marina, Sorice della Guerra e Sandalli dell'Aviazione, più Acquarone  e un giovane addetto di Ambrosio, il maggiore Luigi Marchesi. Comincia il re, annunciando la firma dell'armistizio e i ministri militari, sbalorditi, esclamano: «Armistizio? Noi veramente non ne sapevamo nulla».
Generale Carboni
       Non ne sa niente nessuno, forse fingono, ma ormai è tardi per meraviglie e recriminazioni. Si spera solo che Eisenhower accetti la proroga, tutto dipende da lì: e quando il giovane maggiore Marchesi rientra annunciando che Eisenhower ha respinto ogni richiesta con un agghiacciante ultimatum di una durezza mozzafiato (nota 1) e proprio in quel momento da Radio Algeri sta dando l'annuncio dell'armistizio, perdono tutti la testa.
Generale Ambrosio
Carboni propone di sconfessare la firma già messa, si dia la colpa a Badoglio dicendo che avrebbe agito all'insaputa del governo. Ambrosio è d'accordo, qualsiasi vergognosa trovata pur di non affrontare la reazione dei tedeschi, ai quali fino al mattino di quello stesso giorno il re aveva assicurato che la guerra continuava come aveva proclamato il 25 luglio (mentendo) il maresciallo Badoglio.
         Solo all'intraprendenza dello sconosciuto Marchesi che fece osservare quanto ignobile fosse quella disperata ciambella di salvataggio in extremis, ricordando tra l'altro che gli Alleati avevano filmato la resa di Cassibile e conservavano tutti i documenti sottoscritti dagli italiani per sbugiardarci, si dovette se quei folli propositi furono accantonati e il re dicesse: «L'armistizio fu firmato e si deve onorare l'impegno. Si terrà la parola». A quel punto, ciascuno per sé e Dio per tutti. I sovrani passeranno al ministero della Guerra ritenuto più sicuro, altri li raggiungeranno alla spicciolata, ma ci si dimenticherà di avvisare i ministri e perfino quello degli Esteri, Guariglia, venne abbandonato a Roma. Badoglio andò alla radio a leggere il suo messaggio, aspettando pazientemente che finisse il programma di canzoni. Alla fine dell'ultima canzone: "Una strada nel bosco", dopo una brevissimo annuncio dello speaker Giovan Battista Arista, Badoglio lesse il comunicato, che fu anche registrato per poter essere ritrasmesso, e se ne tornò subito al Ministero della Guerra.
              Nella notte accorre affannato Roatta a comunicare che i tedeschi stanno attaccando dovunque, hanno già preso Gaeta e Civitavecchia, bisogna lasciare subito la capitale e l'unica via libera è la Tiburtina che porta a Pescara. Bisogna partire subito e alle 4.50 del mattino del 9 settembre prende il via la carovana, con in testa l'auto del re, della regina e del generale Puntoni, poi le altre con Badoglio, gli aiutanti di campo e il principe Umberto che si vergogna della fuga e vorrebbe che almeno un Savoia restasse a Roma. Ma il padre gli ordina di seguirlo, S'at più at massu , se ti pigliano ti ammazzano, alludendo ai tedeschi. 
Generale Giuseppe De Stefanis

           Seguono valletti, cameriere, bagagli, autisti. Seguono, più tardi, i generali. Sul molo di Ortona, nella speranza di imbarcarsi sulla «Baionetta» col re, saranno duecento. Lo stato maggiore è stato sciolto, il comando supremo non esiste più: e nessuno che abbia avuto un moto di dignità, che abbia pensato che si sarebbe dovuto combattere anche se la causa era persa, e non abbandonare l'esercito al suo destino per salvare la pelle.
         Il viaggio fu descritto come avventuroso, con soste all'aeroporto di Pescara, trasferimenti nell'ospitale villa della duchessa di Bovino a Crecchio in attesa dell'arrivo della corvetta «Baionetta» per portare la comitiva in salvo a Brindisi: con l'indegno assalto alla nave sul molo di Ortona da parte di fuggiaschi inferociti contro il re e Badoglio che li lasciavano a terra. Si imbarcarono solo in 59, gli altri abbandonarono automobili e bagagli e pensarono a mettersi in salvo in qualche modo.
Generale Antonio Sorice
Resta il mistero su quella fuga così oscura, su quella Tiburtina che non doveva essere controllata dai tedeschi e invece li vedeva transitare ininterrottamente. Le macchine reali furono fermate per tre volte dai tedeschi e sempre lasciate proseguire. Ogni volta si affacciava uno dei fuggitivi e diceva «Ufficiali generali». Bastava per passare. Il viaggio sulla «Baionetta» fu seguito momento per momento da un ricognitore della Luftwaffe, dal quale furono scattate le fotografie che mostrano i reali seduti tristemente a poppa. Ce n'era abbastanza per sospettare che quel «trasferimento» fosse stato concordato con Kesselring, la salvezza dei sovrani e del governo in cambio dell'abbandono di Roma
Raffaele Guariglia

         Fu lo storico Ruggero Zangrandi il primo ad avanzare questa ipotesi, quando nel dopoguerra alla testa delle istituzioni erano tornati proprio coloro che erano fuggiti al momento del pericolo. Allora la sua tesi fu considerata eretica e ingiuriosa, Zangrandi fu trascinato in tribunale, condannato e diffamato al punto di concludere la vita col suicidio. Al quale concorsero certamente le amarezze patite e il discredito riversato su di lui. Oggi molti cominciano a credere che forse qualcosa di vero in quella sua tesi poteva esserci, anche se mancano le prove «accademiche» del suo asserto. Da tempo il viaggio reale verso Pescara ha cessato di essere definito «trasferimento» e si parla apertamente di fuga, pur se c'è chi si ostina a ritenerla necessaria per mantenere in territorio non occupato dai tedeschi (ma pure sempre dagli Alleati) quanto restava delle istituzioni.
         Però all'alba del 9 settembre, viaggiando in affanno sulla Tiburtina, alle istituzioni non pensava nessuno. E quando, finita la guerra, una speciale Commissione giudicò i responsabili della mancata difesa di Roma, non si trovò un solo colpevole e tutto finì in assoluzioni e reintegri nelle carriere. Per molti, anche negli stipendi. Arretrati compresi.
Silvio Bertoldi
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La missione dei due Ufficiali americani (di Enzo Biagi)
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          L’ammiraglio de Courten riferì, nella sua Relazione del 12 febbraio 1944, che Ambrosio gli chiese una motosilurante per portare un gruppo di ufficiali italiani da Gaeta ad Ustica dove, all’alba del 7, si sarebbe trovata una motosilurante inglese, la quale avrebbe ritirato gli ufficiali italiani per portarli a Palermo e consegnato due alti ufficiali anglo-americani, che avrebbero dovuto essere trasportati a Gaeta proseguendo poi per Roma.
          Tra la sera del 5 e la mattina del 6 settembre venne concretata la missione della corvetta Ibis: partenza da Gaeta alle 20.00 del 6, arrivo a Ustica all’alba del 7, ritorno a Gaeta la sera del 7, a notte fatta. Affinché la missione si svolgesse in forma realmente segreta, non fu impartito per essa alcun ordine scritto, ma fu verbalmente incaricato di condurla il contrammiraglio Maugeri, Capo del Reparto Informazioni dello Stato Maggiore. La missione si svolse regolarmente e la corvetta, appena sbarcati a Gaeta i due ufficiali anglo-americani, fu fatta proseguire per la deserta rada di Porto Conte, in Sardegna, con l’ordine di restarvi in stretta quarantena "fino a nuova disposizione”. 
              Il generale Maxwell Taylor ricorda così la sua missione: 
Generale Maxwell Taylor
       Dopo essere sbarcato a Gaeta fummo quindi condotti a Roma in ambulanza percorrendo la via Appia. «Eravamo in tre - mi disse -. Franco Maugeri, (che era l'ufficiale comandante il servizio segreto della Marina italiana poi accusato di spionaggio), il colonnello Gardner ed io. Viaggiando avevamo la possibilità di osservare che cosa stava succedendo soltanto da un finestrino laterale. Man mano che ci avvicinavamo, si vedevano sempre più soldati tedeschi. La città appariva assolutamente normale, le strade erano tranquille. 
           Siamo stati portati a Palazzo Caprara, dove avremmo dormito. L'incontro era fissato per il mattino seguente. Non ci aspettavamo questo programma, perché sapevamo bene quanto era urgente la nostra missione. Lo sbarco avrebbe dovuto avvenire soltanto due giorni dopo, il 9. Di conseguenza insistemmo perché il generale Badoglio ci ricevesse subito, in modo da discutere insieme la situazione. Non ci fu niente da fare. Anzi ci condussero in una sala dove troneggiava una tavola splendidamente preparata e ci servirono una cena pantagruelica fatta venire dal Grand Hotel. Pensi, c'erano perfino le crêpes Suzette! Carboni ci raggiunse dopo cena e noi dovevamo tentare di fargli capire la nostra grande fretta. Io insistei per vedere il primo ministro Badoglio
          La visita venne finalmente concordata telefonicamente abbastanza in fretta. Salimmo su un'auto e attraversammo Roma per raggiungere la residenza del maresciallo». Il marchese del Sabotino, sconvolto per il brusco risveglio, si presentò in vestaglia da camera, anche se quelli dello S.M. avevano lottato perché si infilasse brache e giubba regolamentare (alla vigilia di grandi eventi Badoglio dormiva sempre lo aveva fatto anche a Caporetto). «Mi resi conto - disse Taylor - che non sapeva che entro quella giornata - ed erano ormai le due del mattino dell'8 settembre - gli Alleati si aspettavano che annunciasse la cessazione delle ostilità»
Enzo Biagi
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Il consiglio della Corona dell'8 settembre 1943

Il pomeriggio dell' 8 settembre 1943 il Consiglio della Corona era riunito al Quirinale. L' atmosfera era cupa, angosciata. La tragedia in corso pesava nell' aria e nessuno sembrava conoscere con sicurezza la via d' uscita.
Il volto del re, freddo e impenetrabile, era emblematico del vuoto politico in cui era sprofondata l' Italia. Anche il maresciallo Badoglio, vago e assente, simboleggiava col suo mutismo irresoluto il dramma della nazione.
A quel punto, mentre l' armistizio era gia' anticipato dagli alleati attraverso Radio Algeri, si assistette al bizzarro teatrino dei velleitarismi e delle insipienze. Circolava la strana idea che il documento, gia' firmato dal generale Castellano, potesse essere ancora negoziato e procrastinato. Addirittura cancellato.
Il generale Carboni, responsabile della difesa di Roma, spiegava perche' era impossibile sganciarsi dall' alleanza coi tedeschi. Lo faceva con un tono secco e perentorio e le sue parole cadevano come gocce in un silenzio inerte.
Fu allora che un giovane ufficiale si alzo' e prese la parola ubbidendo a un impulso improvviso. Il suo nome era Luigi Marchesi e i gradi che portava sulla divisa erano quelli di maggiore degli alpini, il che faceva di lui quasi un intruso in quel consesso di ufficiali superiori.
Infatti era stato invitato all' ultimo momento dal generale Ambrosio, il capo di Stato Maggiore generale di cui era assistente. Un suo intervento diretto non era previsto, ma la storia alle volte conosce singolari astuzie. Accadde cosi' che le parole di Carboni suscitarono l' indignazione del giovane Marchesi, il quale comincio' a parlare, dapprima con calma, poi con crescente passione.
Davanti al re, al presidente del Consiglio e a tutti i capi delle forze armate, prostrati davanti alla catastrofe, egli spiego' perche' non si poteva piu' tardare neanche di un' ora l' annuncio dell' armistizio, secondo il comunicato che era gia' nelle mani degli alleati. L' alternativa era un disastro inimmaginabile, dato che la parola era stata gia' impegnata. Smentirla voleva dire coprirsi di ulteriore disonore, senza contare che nelle basi dell' Africa del nord erano gia' pronti a decollare i bombardieri che avrebbero colpito senza pieta' le citta' italiane.
Parlo' Marchesi, in quell' atmosfera irreale, e il re ascolto' . Poi si allontano' dalla sala e di li' a poco fece conoscere la sua decisione: l' armistizio sarebbe stato subito proclamato. Cominciava un altro capitolo della tragedia nazionale.

Manduria - 22 ottobre 1943 Il re fuggito ispeziona un reparto accompagnato dal generale Sandalli e da ufficiali americani

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Appena arrivato a Brindisi il re e imperatore si era sentito in dovere di giustificare le sue pavide azioni, richiamandosi in modo indecente, al bene supremo della Patria.

Proclama del Re trasmesso per radio da Brindisi il 10 settembre 1943
Per il supremo bene della Patria, che è stato sempre il mio primo pensiero e lo scopo della mia vita e nell'intento di evitare più gravi sofferenze e maggiori sacrifici, ho autorizzato la richiesta dell'armistizio.
Italiani, per la salvezza della Capitale e per poter pienamente assolvere i miei doveri di Re, col Governo e con le Autorità Militari, mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo nazionale.
Italiani, faccio sicuro affidamento su di voi per ogni evento, come voi potete contare fino all'estremo sacrificio, sul vostro Re.
Che Iddio assista l'Italia in quest'ora grave della sua storia.
Vittorio Emanuele
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Trentanove mesi prima lo stesso Re e imperatore, il giorno dopo la dichiarazione di guerra, da intrepido combattente qual'era, si era già trasferito in zona di operazioni, per meglio contribuire a pugnalare la Francia alle spalle, e aveva trasmesso agli italiani questo stomachevole proclama:

Proclama del re dell'11 giugno 1940
S. M. il Re e Imperatore ha diretto ai soldati di terra, di mare e dell’aria il seguente proclama: ”Soldati di terra di mare e dell’aria: capo supremo di tutte le forze di terra, di mare e dell’aria, seguendo i miei sentimenti e le tradizioni della mia Casa, come 25 anni or sono, ritorno tra voi. Affido al Capo del Governo, Duce del Fascismo, Primo Maresciallo dell’Impero, il comando delle truppe operanti su tutte le fronti. Il mio primo pensiero vi raggiunge, mentre, con me, dividendo l’attaccamento profondo e la dedizione completa alla nostra Patria immortale, vi accingete ad affrontare, insieme colla Germania alleata nuove difficili prove con fede incrollabile di superarle. Soldati di terra, di mare e dell’aria, unito a voi come non mai, sono sicuro che il vostro valore ed il patriottismo del popolo italiano sapranno ancora una volta assicurare la Vittoria alle nostre armi gloriose.
Zona di operazioni, 11-6-1940-XVIII.
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nota (1)
L'impressionante telegramma inviato da Eisenhower a Badoglio il pomeriggio dell'8 settembre 1943:
"Prima parte. Intendo trasmettere alla radio l’accettazione dell’armistizio all’ora già fissata. Se Voi o qualsiasi parte delle Vostre forze armate mancherete di cooperare come precedentemente concordato io farò pubblicare in tutto il mondo i dettagli di questo affare. Oggi è il giorno X ed io aspetto che Voi facciate la Vostra parte.
Seconda parteIo non accetto il vostro messaggio di questa mattina posticipante l’armistizio. Il Vostro rappresentante accreditato ha firmato un accordo con me e la sola speranza dell’Italia è legata alla Vostra adesione a questo accordo. Secondo la vostra urgente richiesta le operazioni aviotrasportate sono temporaneamente sospese. Avete intorno a Roma truppe sufficienti per assicurare la momentanea sicurezza della città, ma io richiedo esaurienti informazioni secondo le quali disporre al più presto per l’operazione aviotrasportata. Mandate subito il generale Taylor a Diserta informando in anticipo dell’arrivo e della rotta dell’apparecchio.
Terza parte. I piani sono stati fatti nella convinzione che Voi agivate in buona fede e noi siamo pronti ad effettuare su tale base le future operazioni militari. Ogni mancanza ora da parte Vostra nell’adempiere a tutti gli obblighi dell’accordo firmato avrà le più gravi conseguenze per il Vostro Paese. Nessuna Vostra futura azione potrebbe più ridarci alcuna fiducia nella Vostra buonafede e ne seguirebbe di conseguenza la dissoluzione del Vostro Governo e della Vostra Nazione."
Generale Eisenhower